Gente del Quindicesimo

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Fatto D’arme Di Fine Secolo

di Antonio Toscano

Tre aerei veloci e ben armati, contro il Mammajut, lento e scarso, nel bellissimo ed emozionante racconto del Gen. Genta.

“Quando nel cielo incontri la morte, girale intorno e falle la corte”…così cantavano gli aviatori del tempo.

É con quella filosofia nel cuore che quell’equipaggio affrontava la missione ed è con quella tradizione ben appresa, che gli aviatori del 15° hanno affrontato i pericoli che incontravano in cielo ed in terra.

Somalia 1993: missione di recupero di un gruppi di medici che la guerriglia aveva accerchiato nella cittadina di Marca, a sud di Mogadiscio.

Alle prime luci l’HH ai comandi del Ten.Col. Gianmario Generosi vola verso l’obiettivo, con la scorta in volo di un altro elicottero dell’EI e dentro la pancia una squadra della migliore élite disponibile: Col Moschin; otto ragazzi armati fino ai denti.

La missione prevedeva che l’HH si posasse su di una striscia di sabbia in riva al mare, mentre l’altro elicottero sorvolava, sia il punto di atterraggio, sia gli uomini che andavano a prelevare, i coraggiosi “medici senza frontiere”.

Il Comandante dà istruzioni all’equipaggio ripetendo quello che aveva già detto nel briefing. “una volta a terra, scende l’ARS e protegge la parte posteriore; scarichiamo gli uomini del Col Moschin dalla rampa posteriore ed aspettiamo con il rotore in moto. La missione è pericolosa perché sul posto ci sono molti guerriglieri, quindi occhi aperti e colpo in canna alle armi.

Poi si rivolge a me:

- “Totò, tu sai quello che devi fare, non si deve avvicinare nessuno”.

- OK Capo, mi tengo ad una certa distanza e quando finisce la mix, fatemi un cenno che io salgo sempre dalla rampa”.

La squadra del Col Moschin scese con una rapidità impressionante e con altrettanta velocità si diresse verso alcuni ruderi. Andai ad appostarmi dietro l’HH a circa trenta, quaranta metri; scelsi una duna di sabbia che mi consentiva una visione più generale e caricai l’SC-70 mettendo il selettore sulla raffica ed il colpo in canna  anche alla Beretta col caricatore bifilare che portavo alla cintola.

Il mio fucile aveva anche un caricatore di riserva, che era legato al principale con del nastro isolante, secondo i dettami del due è meglio di uno.

In piedi scruto la zona assegnata. Nessuno in vista.

Il rumore del rotore era la mia stella polare ed i colleghi alle armi di bordo coprivano una vasta zona di campo; l’elicottero di scorta sorvolava con ampi giri: tutto tranquillo.

Ma ecco la sorpresa, dalle dune vicine alla mia facevano capolino, dapprima con timore, poi vennero avanti:  una folla di donne e bambini, seguita da uomini armati.

Faci cenno di fermarsi, urlai più volte ALT e mi feci vedere con il fucile tra le braccia.

Niente, continuavano ad avanzare. Allora diedi un occhio all’HH e poi mi mostrai ancora più deciso…tracciai una linea in terra con lo scarpone e mi inginocchiai  per prendere la mira…

S’era fermato il tempo, sentivo solo il rotore dell’HH e non osavo guardare indietro per paura di essere sorpreso.

La folla si fermò e capì che da li non si passava.

Attimi terribili, se avessero superato quella linea avrei aperto il fuoco, prima sopra le loro teste e poi…non ci voglio pensare, ma avrei fatto quello che dovevo fare.

Sparare ad un essere umano è qualcosa che mi ha sempre ripugnato, ma il senso del dovere, quello che mi hanno insegnato, quello che ho sentito sempre come parte di me stesso, avrebbe avuto il sopravvento: avrei aperto il fuoco contro di loro, cercando di non colpire le donne ed i bambini, ma quelli con i fucili.

Anche il leggero venticello che spirava dal mare s’era fermato.

Poi vidi il gesto di rientrare e, sempre tenendo d’occhio la folla che era ferma davanti alla duna, vidi con mio grande sollievo che anche l’altro elicottero era atterrato ed aveva imbarcato quattro o cinque persone con alcune valigie.

Gli uomini del Col Moschin presero a salire dalla rampa posteriore e per ultimo, scaricate le mie armi e messa la sicura, ripresi il mio posto a bordo.

L’HH chiuse la rampa e decollò in pochi secondi e dall’interfono sentii la voce del Capo Equipaggio che mi diceva di andare a sedermi sullo strapuntino che si trova tra i due piloti.

- Totò come va?  – chiese il Capo Equipaggio guardandomi negli occhi.

-Tutto bene, c’è stato un piccolo problemino ma, grazie a Dio, è andato tutto bene. Adesso andiamo a casa che ho fame, non ho fatto neanche colazione.

-  Vuoi un sigarillo? – offrendomi uno dei suoi che teneva sempre a portata di mano.

-  No grazie, il fumo mi fa male…

Quello sguardo, quel suo guardarmi così interessato a me, era intriso d’affetto e non mi sbagliavo.  Conoscevo quella persona da più di trenta anni ed è sempre stata una persona amica, sincera e leale. Pilota nato e cresciuto sugli elicotteri; un vero manico di cui mi sono sempre onorato di essergli amico.  

Mario Russo coniò anche per lui il soprannome: “Marchigiano dal multiforme ingegno” parafrasando il Sommo Poeta.

Santa Marinella, aprile ’12

totonnoMentre sono collegato al nostro sito, insieme ai miei nipoti leggiamo le gesta di quegli aviatori poi decorati; li ho accanto a me, due gemelli biondi e con gli occhi azzurri, che chiedono sempre spiegazioni.

- Nonno ma tu ti sei mai trovato in quella situazione?

-Non precisamente, ma ho vissuto qualche episodio simile.

-Ce lo racconti?

E così ripeto loro quello che ho sopra scritto.

- E tu avresti sparato contro quella gente? – mi chiede Luca.

- Nonno li avresti uccisi? – incalza Simone

Credo proprio di si, rispondo loro, avrei sparato per difendere il mio elicottero, era quello il mio compito e da me dipendeva la vita dei miei compagni.

Mi guardano tutti e due fissandomi da capo a piedi.

-Ragazzi è difficile spiegarvi cosa significava per me il mio compito, è una cosa che fa parte del dovere, di una regola a cui i soldati vengono sempre chiamati.

-Nonno, ma c’erano anche donne e bambini… - dice ancora Simone.

- Si è vero, ma quella guerriglia usava spesso farsi scudo di gente indifesa; era già capitato che avevano attaccato un nostro blindato ed avevano ucciso un ragazzo di 21 anni, si chiamava Millevoi Andrea, un giovane che faceva il proprio dovere e che forse non sparò sulla folla proprio perché pensava che dietro alle donne ed ai bambini non ci fosse il pericolo. Invece fu ucciso.

-Allora sei stato bravo?

-Non credo si tratti di bravura, credo sia stata la volontà di Dio di non farmi prendere una decisione terribile.

I due sono smarrititi e restano in silenzio, ma ci tengo poi a precisare loro.

- “Sparare contro un aereo che ti attacca credo sia altrettanto complicato, ma vedere le facce degli esseri umani da così vicino è una situazione tragica e sempre ringrazio il Signore di avermi evitato quell’esperienza”.    

Poi i nipoti mi chiedono di fare una ricerca per la scuola, fanno la seconda media.

Alla fine i due mi lasciano da solo ma prima di andare via, quasi all’unisono mi dicono: “Nonno sei una roccia”.

Equivale ad una decorazione sul campo, la più alta che si possa immaginare ed è di color azzurro, preziosa come i loro occhi e come l’affetto che mi lega a Gianmario Generosi, che ha poi riportato l’episodio sul “Nec in somno quies” vol. II.

Mammajut

Il fiammifero

di Antonello Albanese

Siamo talmente abituati alle comodità offerte dalla civiltà (se così si può chiamare) dei consumi che le poche volte che “salta” la corrente ed il buio ci avvolge, restiamo colti di sorpresa come un gatto affamato che, intento ad assaporare i suoi croccantini nella sua scodella, ha uno scatto di reazione se ci avviciniamo di soppiatto alle sue spalle e lo accarezziamo sulla schiena. Le nostre certezze crollano, come il senso di sicurezza che ci offre la nostra casa: siamo costretti a muoverci a tentoni e non ricordiamo più dove abbiamo riposto la torcia che, immancabilmente, ritroviamo poi a tentoni dentro ad un cassetto, ma con la batteria scarica.

Per fortuna in un altro cassetto della cucina “tastiamo” il “mozzico” di ciò che è rimasto di una candelina utilizzata sulla torta di compleanno di nostro figlio di 5 anni fa e che abbiamo conservato per la logica del “non si mai, può sempre servire”. Peccato che poi ci accorgiamo che non abbiamo i fiammiferi e neanche un accendino, perché “a casa non si fuma” e la macchina del gas ha l’accensione elettronica. Dopo 20 minuti di ricerche, ci ricordiamo che nel “kit di sopravvivenza” del pilota militare c’erano anche i fiammiferi antivento e che forse, nella vecchia borsa da volo riposta in un armadio, ne è rimasta una scatoletta. La vecchia borsa da volo di cuoio marrone, riposta ormai da anni dentro al più dimenticato armadio di casa, in quel momento si “umanizza”: le due serrature dorate sembrano due occhi con lo sguardo malinconico che ti guardano con l’aria di rimprovero chiedendoti “ Da quanto tempo ti sei dimenticato di me?” e, mentre la apri, sembra che sbadigli con la “fiatella”  di chi è andato a dormire la sera dopo aver cenato a base di insalata di cipolla. Ed ecco che dalla borsa da volo escono piccoli oggetti che anni prima erano stati di uso quotidiano: un compasso con la custodia di plastica crepata, un righello con goniometro, quel che rimane di una gomma da cancellare, una matita grassa bicolore (rosso-blu), una confezione di pennarelli vetrografici ormai secchi, una lente d’ingrandimento, due vecchi PIV (quello blu e quello rosso), un cosciale di plastica con l’elastico sbriciolato dal tempo e la carta geografica plastificata sulla quale sono ancora visibili  i fix, le rotte, gli appunti “presi al volo” tanti, ma tanti anni prima.

Li guardi con un sorriso e, in un attimo, ritorni con il pensiero a quei tempi che senti ancora così vivi dentro di te. Ti ritornano in mente i visi e le espressioni di amici e colleghi con i quali hai condiviso esperienze incredibili ed inenarrabili e che dai quali, per le vicende della vita, ti sei allontanato. Ma in quel momento realizzi che quelle persone fanno parte del tuo essere, che hanno contribuito ad essere quello che oggi sei,  a costruire il tuo presente, forse ancor più dei parenti consanguinei. Con loro, hai condiviso la parte più bella ed affascinante della tua vita non solo professionale, anche quella legata al volo e, con essa, i rischi, le soddisfazioni, i timori, le incertezze, le gioie, i piaceri, il sudore, la stanchezza, le felicità, i dolori, le paure, le amarezze, i sorrisi, le risate e le lacrime.

Un concentrato di sensazioni che nessun altro mestiere al mondo è capace di regalare se non ai fortunati che riescono e sono riusciti ad esercitarlo al 15 Stormo. Peccato che, ahimè, realizzi e riassapori tutto ciò solo quando, come la luce, se ne vanno via.

Fra gli oggetti ritrovi anche la scatoletta dei fiammiferi antivento, all’interno della quale ne è rimasto solo uno, ma…… proprio in quel momento torna la luce accompagnata dal rumore dei tuoi insostituibili gadget elettronici che riprendono vita con un “bip”. Anche la televisione si riaccende da sola appena in tempo per farti vedere il servizio sportivo del TG1 con i goal della domenica.

E con il ritorno della luce, ritorni anche alla realtà, pensando che talvolta vivere al buio fa proprio bene.

Accordi & Disaccordi; Alias: Tributi & Contributi

(ovvero, l’importanza di chiamarsi ARS)

di Antonio Toscano

Tale Cicchella, ARS Trapanese, fu comandato al mio posto per ordine del Comandante di Gruppo Gigino Ancora che mi disse: “devi assolutamente trovare un albergo dignitoso” visto che alcuni di noi erano stati dirottati in una catapecchia.

Così disertai quella disavventura di Berardo-Trinca nelle vigne di Villamassargia.

L’equipaggio, se non ricordo male, era composto da due ARS Cicchella e Felaco e due specialisti Zona e Bonaccorsi, giovani ma esperti e scrupolosi EFV, con a bordo anche il Comandante di Stormo, Col. Pastorino.

Alla missione Mare Aperto partecipavano un equipaggio di Trapani ed uno di Brindisi, oltre a 4 HH dell’85° di Ciampino.

Il Quindicesimo era finalmente chiamato come Reparto di cui si riconosceva la professionalità aeronautica e non più al margine come Reparto cosiddetto di supporto, ma come Reparto attivamente partecipativo all’addestramento della difesa del sacro suolo.

La missione era partita da circa 15 minuti ed eravamo ancora tutti sulla pista di Cagliari a decidere il da farsi e come orientarsi, quando giunsero di corsa Roda e Clemente urlando come forsennati: “sono precipitati in mare…hanno dato il May Day”.

jollyL’equipaggio si compose in un attimo, oltre ai due piloti saltarono a bordo gli specialisti e gli ARS (Toscano-Pessolano): APU, Motori e decollo in un attimo.

Diretti come fusi, veloci “a tutta canna” a 200 ft. cercando subito un segnale che potesse provenire dalla radio d’emergenza.

“Eccoli” disse Clemente “il segnale viene dal mare, sono caduti in mare”.

La voce mi risuonò come una condanna e l’emozione vinse il mio autocontrollo mentre indossavo la muta subacquea e lacrime anonime invadevano il mio viso.

“Stai calmo” disse Mimì Pessolano “li prendiamo anche se ci fosse il maremoto”.

Le parole del mio socio di tanti anni mi rincuorarono, mentre l’elicottero faceva una rapida virata a destra. “Non sono in mare, sono a terra; il segnale viene da terra”.

Intanto io pensavo al ragazzo trapanese che si era offerto al mio posto e all’amico Giovanni Felaco, ponendomi gli interrogativi più crudeli anche se l’ottimismo di cui sono sempre stato dotato mi suggeriva che tutti erano salvi ed incolumi. Speravo, non me la sarei perdonata!

Avevo molta fiducia nell’esperienza aviatoria di Votantonio Berardo, avevo molta stima del Capitano Trinca, avevo un tuffo al cuore per il giovane Affetto Zona, ragazzi che rappresentavano per me il filo diretto con la mia vita di aviatore del Quindicesimo che s’apprestava a diventare qualcosa di molto significativo, la colonna sonora di un’esperienza unica.

“Eccoli, li ho trovati, sono verso l’entroterra…guardate fuori, devono essere alla nostra destra…no, non a destra ma a sinistra…il segnale si sposta di continuo. Ma che succede?” urlava ancora Clemente.

A terra, il nostro Comandante di Stormo era partito alla ricerca di un telefono e, preso contatto con i locali CC, s’aggirava a bordo di una macchina della Benemerita con l’antenna della radio che fuoriusciva dal giubbetto d’emergenza, distogliendo la nostra ricerca del segnale.

Ma dall’alto apparve la sagoma dell’elicottero che sembrava una frittella mezza bruciacchiata, in una pozza d’olio.

Atterrammo nelle immediate vicinanze e con una corsa che sapeva di meraviglia, di felicità e d’incoscienza, mi tuffai nelle braccia di Felaco dal quale seppi che tutto l’equipaggio era incolume.

Sudato e con la muta addosso abbracciai tutti per lo scampato pericolo. Come diceva il maestro di Votantonio “lo scheletro era intatto” ed io ripresi il mio colore normale.

Subito fu organizzata la sorveglianza e la riparazione partì immediata. Da Cagliari arrivarono i tecnici. Preso con noi a bordo l’equipaggio ancora scosso tornammo in Base. Votantonio era scuro in volto e con il libretto del velivolo in mano, discuteva con Trinca battendo una mano sopra al libretto; sguardi smarriti, volti tesi, occhi che volevano essere da tutt’altra parte, adrenalina che rifluiva e scheletro a riposo.

La sera mi venne la febbre e l’indomani disertai ancora i voli. Il pomeriggio ebbi la gradita sorpresa di avere la visita del Capitano Trinca che sembrava avesse superato la brutta esperienza. Sempre gentile, sempre accorto a far sentire la propria presenza.

I voli continuarono e per circa dieci giorni partecipammo a tutte le esercitazioni garantendo, con la nostra sorveglianza, il livello di sicurezza generale.

La sera, quando non eravamo in volo, facevamo una passeggiata fino al porto per sgranchire le gambe ed accertarsi di essere ancora tra le traversie della gente.

Il gruppo dei passeggiatori era solito comporsi in Campi, Roda, Toscano, Pessolano, Felaco, Menna, Zona più alcuni specialisti di Trapani e di Brindisi: una banda.

Quello che era accaduto aveva scosso un poco lo spirito goliardico, sicché ci limitavamo a quell’ora d’aria per poi rientrare il albergo e ritrovare tutti; una specie di rito che nel linguaggio non parlato potremmo definire “fare sempre e comunque gruppo”, anche se lo “spiritello porcello” di Roda tentava qualche sortita.

A tavola la sera Biagini, Capo Equpaggio dell’HH di Brindisi, ci meravigliava sempre con le sue richiesta di carni flambé e la sua cultura in fatto di superalcolici americani.

Dopo cena a nanna molto presto, perché spesso si partiva alla prime luci. Il che voleva dire sveglia alle cinque e partenza alle sei.

Giorno e notte si volava con il solo ausilio del radar, quasi sempre in mezzo a lampi e tuoni e non mancava mai qualche piccola inefficienza strumentale o idraulica, come il Bar-Alt che si sganciava o l’AFCS che faceva capricci. Una notte, al rientro da una missione tra fulmini e saette, ci ritrovammo quasi all’isola di San Pietro e Campi-Spina – due che se ne intendevano – riportarono la missione a terra e lo scheletro fu ricacciato indietro ancor una volta.

Si volava fino a poche miglia dalle Isole Baleari e tornavamo indietro a missione conclusa, fidando che lo “scheletro” rimanesse per intero ed il lancio in mare del “crisantemo di plastica” venisse rimandato sine die.

La voce dello specialista era rassicurante: “giro di controllo OK, a voi bussola e carburante”, una voce che scandiva ogni 30 minuti di volo.

Le macchine, per quanto a volte imperfette, erano domate da equipaggi di valore professionale assoluto. L’esperienza ci ha portato molte volte lontano, ma non abbiamo mai avuto dubbi sulle nostre capacità; siamo arrivati dovunque e comunque, superando monti, valli, neve, grandine e qualche sparo contro di noi, con relativo buco nella fusoliera (da un carcere di massima sicurezza!!!).

Al rientro a Ciampino, l’Onda O4 era perfettamente efficiente e portò a casa gli scheletri dell’equipaggio. Navigammo da Cagliari in formazione di 4 HH e sull’aeroporto facemmo un doppio passaggio, come vuole la tradizione dopo una nuova affermazione di professionalità aeronautica, guidati dal capo formazione Votantonio Berardo, ancora su ONDA 4, che ne frattempo aveva smarcato molte missioni.

Lo scheletro è ancora intatto ed i crisantemi di plastica li abbiamo devoluti in beneficenza. Si fa così, no? Tutti a casa!!!

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P.S. – A proposito…come disse Piscitiello Scrimo – giacché mi trovo…

Il luogo dove era atterrato incolume l’Onda 04 era una piccola vigna con nelle vicinanze un casolare. Quando atterrò il secondo elicottero un contadino a bordo di un trattore si avvicino quasi timoroso e chiese educatamente cosa fosse successo.

Si fece riconoscere da Roda come il proprietario di quell’appezzamento di terreno che lo indirizzò verso di me.

- Lei è un Aerosoccorritore? – chiese con il cappello in mano il gentiluomo di vecchio stampo.

Gli andai incontro ancora con la muta addosso.

- Si, dica pure.

- Anche mio nipote è un Aerosoccorritore.

- Ma davvero e chi è?

- Si chiama Dante Dessì e fa servizio a Furbara.

Strette di mano e sorrisi all’unisono, …il mio amico Dante che era proprio originario di Villamassargia. Si direbbe che l’antidoto contro lo scheletro sia un “Jolly”…può essere?

Questa singolare stirpe la trovi nei posti più impensati ed in virtù di uno strano decalogo, offrono vino, salciccia, pane e sono attenti, educati e soprattutto orgogliosi di appartenere a quella razza…che strana gente.

Ho deciso che ogni volta che si parlerà di ARS del Quindicesimo, io terminerò con una citazione che simboleggia la propriocezione di questa specialità:

“PER UNDAS AD SIDERA”

Mammajiut


Mammajut